La recensione del film Eisenstein in Messico di Peter Greenaway

Visto che si parla di Eisenstein, apriamo e chiudiamo subito una parentesi, così ci leviamo di torno la cazzata oscena con cui un filmaccio italiano ha stigmatizzato una delle più importanti opere cinematografiche al mondo e uno dei pionieri del cinema contemporaneo: “La corazzata Potemkin NON è una cagata pazzesca”, lo è invece il film di Fantozzi.

Ebbene sì, si parla di Sergej Eisenstein, uno dei padri della cinematografia moderna, eclettico, geniale, così fuori da ogni schema da ritrovarsi spesso fuori luogo: con tendenze omosessuali, di origine ebrea, considerato – all’indomani della rivoluzione russa – troppo russo dagli americani e troppo americano dai russi, costretto dalle leggi contro l’omosessualità a sposarsi, censurato e obbligato a soffocare il suo estro dal regime sovietico di Stalin.

Una figura poliedrica ed eclettica che doveva prima o poi incontrare e quasi fondersi con quell’Artista poliedrico e visionario che è Peter Greenaway, un regista che condivide con il regista russo conoscenza del mezzo, voglia di sperimentare, follia e visionarietà.

Di cosa parla Eisenstein in Messico

Eisenstein in Guanajuato (titolo originale di Eisenstein in Messico), in gara all’ultimo Festival del cinema di Berlino, è il grande omaggio che Greenaway fa al suo collega e al cinema, raccontando un periodo particolare della vita del regista russo: l’anno passato in Messico nel tentativo di girare il film Que viva Mexico!, mai terminato per diversi problemi con i produttori. Quell’anno passato in Messico fu per Sergej un anno in cui ebbe l’illusione di recuperare quella libertà espressiva che sapeva gli sarebbe stata vietata dal regime di Stalin, ma che gli era anche limitata dalla cinematografia hollywoodiana, per motivi sia commerciali che di mal fiducia in un regista proveniente da un Paese sospetto: un anno impegnato a girare chilometri di pellicola e con il nemmeno tanto celato desiderio di rimandare il più possibile un eventuale ritorno in URSS.

È in questo periodo che si inserisce Peter Greenaway, rappresentando questo momento felice come una completa apertura al mondo, una scoperta della sessualità, un rapporto più maturo e cosciente della vita e della morte. Nell’incontro tra i due registi avviene qualcosa di straordinario: le due figure si fondono, si amalgamano, diventa quasi impossibile capire dove finisca Eisenstein e dove inizi Greenaway.
Certo, la storia del regista russo viene narrata con dovizia di particolari dalle stesse parole del protagonista, un eccezionale Elmer Bäck, e documentata con immagini di repertorio, con i disegni del regista, video tratti dai suoi film, tutto amalgamato con la classica e affascinante tecnica di Peter Greenaway che risulta la solita, immensa gioia per gli occhi.

Oltre la storia di Sergej Eisenstein

Ma oltre alla documentazione fedele, non si può non notare come si inseriscano le tematiche classiche del regista inglese: le sue riflessioni sulla sessualità, sulla morte, sul potere e sul cinema. Non solo la storia personale di Eisenstein, ma la stessa cultura messicana diventa la culla per far emergere le tante riflessioni filosofiche del regista inglese, che con il suo solito e amabile sberleffo, con il classico abbondare di peni al vento, di scheletri, coglie l’occasione per fare un omaggio alla vita e al cinema, alla voglia di libertà, non lesinando critiche alla censura, alle costrizioni religiose e politiche, liberando il pensiero, l’espressione, l’immagine sessuale tra il gioco e la riflessione storico sociale.

Eisenstein in Messico è un film così denso di contenuti che meriterebbe un’analisi scena per scena, ma il consiglio da dare in primis è di vederlo e lasciarsi affascinare da un regista, Greenaway, che ancora una volta ha saputo usare l’immagine come pochi sanno fare e ha saputo trasmettere tanto con una ironia e una freschezza proprie a ben pochi Maestri del cinema.