La recensione del film Blue Jasmine di Woody Allen

Jasmine è una donna strana, parla da sola, di continuo, su quell’aereo che la porta da New York a San Francisco, da una costa all’altra degli USA. Lascia una vita agiata, un marito ricco che non le ha fatto mancare nulla, una grande e splendida casa, una vita fatta di feste, cene, shopping. Lascia tutto, deve ricominciare da capo, da zero, da una sorellastra che è il suo opposto, vissuta in una realtà più umile, tra il lavoro al supermercato, con amori non certo da sogno, e due figli obesi come tanti negli USA contemporanei.

“Storia di una donna sull’orlo di una crisi di nervi” potrebbe essere il sottotitolo dell’ultimo film di Woody Allen, Blue Jasmine. Storia di una donna che tenta di non cedere psicologicamente al crollo verticale e rapido della sua vita, all’annientamento di tutto quello che ha costruito e il confronto con una realtà che spocchiosamente ha sempre rifiutato. Incapace di adattarsi al nuovo e accettare la nuova realtà.

Protagonista è una mastodontica Cate Blanchett, alle prese con una delle sue più straordinarie interpretazioni: insicura, tesa, angosciante, sofferente, spesso crudele, ci racconta una donna fragilissima, nevrotica, arrabbiata. Jasmine è una donna incapace di capire nient’altro che l’ambiente dove è sempre vissuta, quell’ambiente che viene raccontato con costanti flashback che si materializzano nei suoi deliranti soliloqui in pubblico; è perseguitata da un passato con cui non ha chiuso, da cui scappa e che probabilmente vorrebbe dimenticare in gran parte. Perché se la sua vita era ricca di lussi, non le mancavano anche bugie, non detti, falsità, disonestà.

Nei film di Woody però il conto viene sempre presentato alla fine ed è spesso molto salato.

A suo modo Allen ci racconta la sua visione della crisi: in una società che da un giorno all’altro si è vista azzerare quelle ricchezze che si basavano su giochi in borsa e non sul più tradizionale e modesto lavoro, l’unica salvezza non può che essere rappresentata dall’umiltà della vita quotidiana più semplice e l’incapacità di sapersi adattare a tale vita, e l’attaccamento ad un certo tipo di lusso, rappresenta quindi la caratteristica dell’individuo debole, colui che soccomberà secondo la più classica legge darwiniana di selezione della specie.

Per far questo usa gli strumenti che gli sono più congeniali: il rapporto di coppia, la nevrosi, l’ironico cinismo e quella concezione fatalistica della vita che ci rende strumenti del sadico gioco di coincidenze e scherzi del destino. Forse il punto debole della narrazione, specie a caldo, può essere la sensazione di una trama non particolarmente enfatizzata nei colpi di scena, con una sceneggiatura da cui ci si aspetterebbe di più; ma il sospetto è che questa scelta sia stata fatta per evidenziare maggiormente il pathos e il dramma che riesce a comunicare in maniera magistrale la grande, vera e unica protagonista del film: Cate Blanchett.

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