Alluvioni e bombe d'acqua

Provengo da una terra che negli ultimi lustri ha conosciuto a più riprese la furia dell’acqua. Ogni volta che arriva la “stagione delle piogge”, quei mesi che vanno da ottobre a gennaio, la provincia di Lucca sa con certezza che dovrà fare i conti con esondazioni e frane. L’incognita sta nel saldo finale: a quanti milioni di euro ammonteranno i danni? A chi toccherà fregiarsi del titolo di “sfollato”? Riusciremo a non lasciarci la pelle?

Il mio ricordo più vecchio legato al timore della furia che può scatenare la pioggia risale all’inverno ’96/’97, primo anno di liceo. Pochi mesi prima un’alluvione aveva colpito la Versilia e la Garfagnana, portandosi via molte vite e trascinando quasi per intero via con sé Cardoso e Fornovolasco. Quel giorno d’inverno, quindi, era più che vivido lo sgomento suscitato da quella terribile vicenda. E ricordo perfettamente il timore che specchiava tra i miei occhi e quelli di una delle mie migliori amiche mentre, stipate come sardine sul treno che doveva riportarci a casa, questo si fermò per un tempo che all’epoca mi parve infinito su un ponte lungo il Serchio. Osservavamo impaurite la violenza con cui tutta quell’acqua marrone si impossessava del suo letto, trascinando con sé qualsiasi cosa finisse lungo la sua corsa. Poi, il nostro sguardo, nell’incrociare quello dell’altra, rivelava paure cui il nostro cervellino aveva minuziosamente e silenziosamente dato vita.

Se si pensa al detto “mi costi più del Serchio a’ Lucchesi” si intuisce che la piana di Lucca non abbia mai avuto un rapporto facile col suo fiume. È vero, ma di certo questo non può essere assunto come scusa ogni volta che il Serchio decide di espandersi a proprio piacimento. Né tantomeno ci si può barricare dietro ai “ma era un evento meteorologico di portata eccezionale” o attribuire la causa al fatto che il clima sta mutando. Questi nubifragi che ciclicamente devastano ampie zone del nostro Paese vengono comunemente chiamate “bombe d’acqua”, a testimonianza – o a giustificazione? – del fatto che non sono controllabili.

Ora, dato che le parole sono importanti e sono il più preciso strumento che abbiamo per farci capire dai nostri simili, vorrei analizzare dettagliatamente cosa implica la definizione di “bomba d’acqua”. Sul complemento di specificazione non mi soffermo, in quanto è chiaro e corretto: alla fine di acqua stiamo parlando. Vorrei piuttosto approfondire le implicazioni dell’uso del sostantivo “bomba”.

La prima definizione che ne dà il dizionario Treccani è:

Involucro cavo, carico di esplosivo, munito di dispositivo di scoppio.

Quindi, in soldoni non è altro che un oggetto che viene riempito con del materiale esplosivo, il quale a sua volta viene attivato tramite un innesco.

Dando per assunto che l’involucro sia l’ambiente che ci circonda, dobbiamo trovare chi, nella nostra metafora bellica, fa la parte degli altri due elementi.

Dunque, se è vero che sono eventi che esulano dalla normalità, se è vero che sono bombe d’acqua, è altresì indiscutibile che ogni bomba ha bisogno del carico esplosivo e di un innesco per esplodere.

Il primo è dato da una straordinaria concentrazione in poche ore di una quantità di precipitazioni piovose che di norma dovrebbe cadere in diversi mesi. Questo, però, non è altro che uno degli effetti dei rapidi mutamenti climatici in atto da qualche decennio sul nostro pianeta.

Quindi, qual è l’innesco che più volte nel corso dell’anno provoca disastri come quello che da ultimo ha colpito anche la Sardegna? La mano dell’uomo. E la risposta è talmente palese da sembrarci inevitabile e sufficientemente rassicurante da non farci sentire responsabili in alcun modo, quasi dicessimo “l’acqua calda è calda”. Un pleonastico dato di fatto. Inutile e indolore.

La verità è che gran parte di noi è responsabile: la maggioranza in maniera indiretta; pochi, direttamente senza coscienza. Se non avessimo barattato il senso di responsabilità in favore dell’utile proprio oppure se non avessimo girato la testa altrove quando alla coda del nostro occhio ha fatto capolino l’illegalità – “perché così fan tutti”. Se avessimo avuto uno sguardo a lunga gittata anziché essere accecati da soldi facili, se avessimo scelto la competenza in luogo del do ut des, se quel letto di fiume fosse stato manutenuto, se quell’edificio fosse stato costruito con criterio, se avessimo avuto più conoscenza del territorio… un tappeto di “se” che dovrebbe rendere insonni le notti di più di qualche persona, in special modo di coloro che hanno responsabilità dirette in disastri del genere.

Tuttavia, con i “se” e con i “ma” non si fa la storia. Giusto. Dunque cosa vogliamo fare per il futuro, per evitare che catastrofi come l’alluvione sarda ci schiaffeggino in maniera così drammatica? Restiamo semplicemente a guardare facendo spallucce e “speriamo che non capiti mai a me”? Siamo davvero disposti a salutare nostro figlio al mattino e non rivederlo mai più perché un ponte su cui si trovava a transitare per andare a lavoro è crollato improvvisamente come un castello di carte? Ci rassegniamo al fatto che il politico di turno ci dica “è colpa delle Amministrazioni precedenti che hanno lasciato che l’abusivismo edilizio e l’incuria verso il territorio avessero la meglio. Allo stato attuale, correggere preventivamente i disastri causati da altri avrebbe costi insostenibili.”?

Tralasciamo il fatto che è paradossale che si debba prevenire retroattivamente un danno, quando, se si fosse calcolato – o preso in considerazione – il rischio associato a un determinato pericolo, adesso non ce ne sarebbe necessità. Ecco, tralasciando ciò, se è vero che i costi per questa “prevenzione” sono mastodontici, non è possibile trovare un modo per cui i cittadini comuni con specifiche competenze possano mettersi a disposizione, ottenendo però qualcosa – che sia legale  in cambio? Ad esempio, sarebbe possibile per aziende o liberi professionisti che volessero donare alla comunità – perché di questo si tratterebbe – tempo ed expertise ottenere un qualche tipo di sgravio fiscale o di incentivo?

Non ho certo la presunzione di pontificare quale sia la tattica per prevenire disastri futuribili, risollevare le sorti di chi li ha subiti o correggere errori passati. Una semplice strategia, però, mi prendo la briga di suggerirla: muoviamoci nel mondo con senso di responsabilità verso noi stessi e gli altri, impariamo quali sono i nostri diritti e non fuggiamo dai nostri doveri. Il resto verrà di conseguenza e sicuramente non farà troppo male.