Montanelli alla macchina da scrivere

È il 1929, un Montanelli ventenne scrive al suo ex professore di liceo, Domenico Petrini, che vuole presentarlo al critico letterario Luigi Russo. Gli confida dubbi e incertezze: non si sente all’altezza e considera “poco decoroso consumar carta e inchiostro per raccontare inutili fanfaluche o per abbandonarsi a eccessi retorici di dubbio buon gusto, quando non si possiede nemmeno l’originalità di una convinzione”. Ritiene di essere spaventosamente ignorante, pieno di lacune e insufficientemente preparato; pensa di doversi ancora dedicare a un “paziente tirocinio di prova e riprova”, prima di buttarsi nell'”intricato labirinto della vita giornalistica”.

Indro Montanelli: «Se il giornalismo non è, per ora, la mia strada, è certo, però, la mia mèta»

Era il 1929 e, colui che sarebbe diventato uno dei più grandi giornalisti italiani, scelse di metter da parte ogni velleità, rifiutare una “raccomandazione” e non avere fretta, di “scrivere molto e pubblicare poco”, decise – per timore e senso di responsabilità – di aspettare e maturare in silenzio “prima di comparire alla ribalta”.

È il 2013, i fischi non fanno paura a nessuno. I quotidiani pubblicano articoli non firmati che creano imbarazzo persino a chi li ha scritti; tra gli scaffali delle librerie prendono polvere improponibili opere che qualcuno ha pubblicato a pagamento e nessuno leggerà. Lo stile non conta, possedere l’originalità di una convinzione neppure. Aspettare e maturare in silenzio è démodé. Rifiutare “l’aiuto altrui” è da stolti.

È il terzo millennio: “bene o male purché se ne parli”.

La Sua lettera di presentazione (non voglio darle a bere di essere stato così discreto da non leggerla) era molto confortevole per me; e la persona a cui era rivolta è certo molto influente nel mondo giornalistico. Ma, sebbene io stesso Le abbia accennato a certe mie velleità in proposito, credo che ben poco si potrebbe fare per me: non che io non abbia fiducia nella lealtà dell’aiuto altrui – ma penso che questo del giornalismo dev’essere e deve restare ancora per un bel pezzo un programma assai lontano per me. Di fare il cronista o il correttore di bozze non ne ho voglia; e, d’altra parte, i lavori più seri e sostanziali non sono pane per i miei denti: a buttarmi nell’intricato labirinto della vita giornalistica, ora, con la cultura, l’esperienza e la scaltrezza che ho – o, meglio, che non ho –, farei come colui che, non sapendo nuotare, si vuol gettare in alto mare: qualcuno dice che, per l’occasione, s’improvviserebbe nuotatore – ma io penso, invece, che andrebbe a fondo.

E così preferisco aspettare e maturarmi in silenzio, prima di comparire alla ribalta: perché i fischi mi fanno paura. Un po’ di strada, in questi due anni d’università, l’ho fatta: poca, a dire il vero, perché la mia ignoranza è pressoché spaventosa. Ma, col tempo, spero di migliorarmi e di colmare le lacune; e, soprattutto, di mettere un po’ d’ordine e d’armonia fra tutti quei pensieri e princìpi che gironzolano, per conto loro, nella testa senza offrirmi un punto d’appoggio stabile e sicuro.

Non che io voglia farle intendere con questo che la mia anima e la mia coscienza sono in crisi, perché queste mi sembrerebbero parole troppo grosse e sproporzionate a una bocca di vent’anni; ma certo vi è che, o per insufficienza di preparazione o per causa di gioventù o per difetto d’intelligenza, non riesco a veder chiaro in nulla: e nella storia e nella filosofia, per le modeste e sbandate cognizioni procuratemi, le opinioni disparate e discordi di Marx e di Stirner, di Hegel e di Comte fanno a pugni fra loro senza offrirmi nemmeno un convincimento sicuro; e in letteratura – dove, fino a poco tempo fa, credevo di avere opinioni incrollabili – passo da un modello all’altro, senza riuscire a cavarne un «tipo» cui attenermi con costanza. Che sia un difetto dei tempi? Certo, mi pare che la generazione passata abbia sofferto assai di questi dubbi; e che il rimedio proposto da Fichte non abbia sortito alcun pratico effetto. Ma allora bisognerebbe che arrivassi alla molto melanconica conclusione che io sono un sopravvissuto: il che, oltre a sembrarmi un po’ assurdo, mi darebbe anche parecchio fastidio.

La lunga e tormentata esistenza di Indro MontanelliPer tutto questo, e per altre ragioni ancora, preferisco restare nell’incognito: perché ritengo poco decoroso consumar carta e inchiostro per raccontare inutili fanfaluche o per abbandonarsi a eccessi retorici di dubbio buon gusto, quando non si possiede nemmeno l’originalità di una convinzione.

Con tutto ciò non deve credere che io mi abbandoni completamente nell’inazione: se il giornalismo non è, per ora, la mia strada, è certo, però, la mia mèta; e per potervi, un giorno, riuscire, compio già da ora un paziente tirocinio di prova e riprova. E mi arrabatto, giorno per giorno, a scrivere e buttar giù, sforzandomi sempre a dire molto e a parlare poco. Servirà, se non altro, a farmi uno stile sobrio e proporzionato. Quando sarò sicuro di aver raggiunto una certa sicurezza e stabilità di costruzione […], farò vedere qualche cosa. Intanto, seguo il monito di Papini ai giovani: scrivere molto e pubblicare poco. Io ho il buon senso di non pubblicare addirittura niente – sebbene mi se ne sia presentata, qualche volta, l’occasione –; e spesso spingo la mia meticolosità sino a distruggere quello che ho fatto. Come vede, onestà e sincerità d’intenzioni ce n’è parecchia.

Da: Nella mia lunga e tormentata esistenza – Lettere da una vita, Rizzoli 2012
Foto: Indro Montanelli con la sua affezionata
Olivetti Lettera 22 sulle ginocchia